TERZA MEDITAZIONE
DAR CREDITO ALLA
SPERANZA
SR. CRISTINA
«Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo
- oracolo del Signore -,
progetti di pace e non di sventura,
per concedervi un futuro
pieno di speranza» Ger
29,11
«52Giuseppe
di Arimatea si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo
depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato
nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. 54Era il
giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. 55Le
donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse
osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli
profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto» (Lc
23,52-56).
L’evangelista Luca sta
presentando l’atto finale del dramma che si è consumato sul Calvario, in quel
giorno vigilia di festa. Il Crocifisso è morto e il suo corpo, ottenuto da
amici influenti e coraggiosi, è posto in una tomba, una tomba che è nuova, sola
novità nel copione tante volte ripetuto delle esecuzioni capitali.
Giuseppe di Arimatea, con la
sua audacia e la sua generosità, compie il gesto della sepoltura, poi lascia la
scena alle donne che lo hanno seguito e che osservano ogni particolare di quanto
avviene.
Tra le due scene,
l’evangelista annota: «Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci
del sabato» (v. 54).
Nella tomba, insieme al corpo
di Gesù vengono sepolte le attese di salvezza e di riscatto che tanti avevano
riposto in lui, ascoltandolo e vedendolo operare; sono sepolte le visioni del
Messia che ognuno dei suoi aveva e desiderava riconoscere nel Maestro. Nella
tomba viene pure chiusa la vita condivisa con Gesù, ormai consegnata ad un
passato che si può soltanto ricordare.
Nel presente, però, ci sono
dei segni che invitano ad aprire brecce nel muro spesso di ciò che appare senza
futuro. È il giorno parasceve, della
preparazione: ci si prepara a celebrare il sabato, giorno in cui, settimana
dopo settimana, si rinnova la consapevolezza di essere coinvolti da Dio nell’alleanza
da Lui stipulata con il suo popolo. Il riposo rituale del sabato tiene viva la
certezza: Dio, che ha fatto tutto per l’uomo (Es 20,8-11) e ha liberato Israele dalla schiavitù (Dt 5,12-15), non mancherà oggi di
benedirlo. Su di Lui può contare. Ci si astiene da ogni attività, dunque, per
dedicarsi a lodarlo, con gioia e con gratitudine, dichiarandolo così Signore
del tempo e della vita, del mio tempo e della mia vita.
Le luci del sabato, quei lumi accesi nelle case a segnalare l’inizio
del giorno festivo, già splendevano
quando Gesù viene sepolto. Qualcosa finisce, sì, ma qualcos’altro sta iniziando
a sbocciare. La luce del giorno che al crepuscolo si affievolisce è rischiarata
dai lumi risplendenti. L’oggi dei
discepoli di Gesù, addolorati e senz’altro smarriti, chiama ciascuno di loro a
tenere in tensione queste due realtà; una tensione ardua da sostenere, eppure
gravida di vita. Di questa vita ancora sconosciuta e, anche, inimmaginata, sono
una discreta allusione quegli olii profumati che le donne preparano e poi
conservano durante il giorno di festa, in attesa di ungere il corpo di Gesù. La
sospensione a motivo del riposo sabbatico, osservando il quale ogni fedele
israelita rimane nell’alleanza, dichiara la volontà di lasciare a Dio il
primato dell’azione, aperti e disponibili a fare la propria parte.
Profumi preparati, riposo
sabbatico in obbedienza alla Legge: le donne compiono gesti di speranza,
dischiudendo in se stesse lo spazio per accogliere la sorpresa della Vita, non
quella ‘ritornata’ dalla morte, ma quella ‘oltre’ la morte.
«La liberazione dalla morte è ciò che l'uomo spera
intensamente. Diciamolo, è l'unico oggetto della sua speranza. Perché se questa
attesa non approda a nulla, tutte le altre sono senza significato» (card. Godfried Danneels). Ognuno di
noi si dà da fare per realizzare una tale speranza.
La differenza tra i contenuti che ciascuno mette nella
parola ‘speranza’ e le strade che intraprende per conseguirli è determinata da
chi sta al centro del mio cuore, e dunque a chi mi rivolgo per dare
orientamento all’esistenza. L’alternativa è radicale, senza sfumature: o io o Dio.
In chi ripongo la mia speranza di vita? In me stesso,
nelle mie risorse, per tutelare le quali cerco di acquisire potere e rendere
inoffensivo chi le può minacciare… oppure in Dio, che si è manifestato in Gesù
Signore come amore che dona la vita?
L’antica
sequenza pasquale, che la liturgia della Chiesa canta a Pasqua e poi per gli
otto giorno seguenti, fa dire a Maria di Magdala: «E’ risorto Cristo, mia
speranza!». Se, in sintonia con questa donna, vogliamo anche noi affermare che
la nostra speranza è Cristo risorto, allora niente è più come prima. Cominciamo
a vedere l’esistenza nostra e di tutto il mondo, a partire da quella di chi ci
è vicino, dal suo compimento: Gesù Cristo glorificato, appunto, di cui noi
formiamo il corpo vivente nel tempo, nella storia: la Chiesa. Con il salmista
allora possiamo dire: «Solo in Dio riposa l'anima mia: / da lui la mia
speranza» (Sal 62,6).
Giorgio La
Pira, che fondava la sua visione sociale e politica e l’azione conseguente
sull’immagine della Gerusalemme celeste (Ap 21 e 22), non era perciò un
‘visionario’ perduto in un empireo lontano dalla realtà, ma era un concreto
uomo di fede che, alle ‘speranze’ soltanto umane, immanenti, anteponeva la
speranza certa che è una Persona, quella del Figlio di Dio, nel quale noi pure
siamo figli di Dio per il dono del Battesimo.
«Colui che alza
gli occhi verso il Signore risorto trabocca di fiducia, ma non smette tuttavia
di darsi da fare. Bisogna pensare agli angeli di Pasqua e dell'Ascensione. A
Pasqua dicono ai discepoli: «Rivolgete i vostri sguardi verso il cielo, non
verso la terra: Lui non è qui». All'Ascensione affermeranno esattamente il
contrario: «Non restate là a guardare il cielo... Alzatevi, c'è ancora molto
lavoro da fare» (card. Godfried
Danneels).
Nel
nostro Paese i venti dello scoraggiamento e dell’apatia soffiano con potenza.
La disillusione ammorba chi ancora non ha neppure avuto il tempo per ‘sognare
in grande’. Qualche considerazione di papa Francesco
nell’Esortazione apostolica Evangelii
Gaudium ci può sostenere e ispirare: «”Nel deserto si torna a scoprire il
valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono
innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della
sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto
di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la
Terra promessa e così tengono viva la speranza” (Benedetto XVI). In ogni caso,
in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere
agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio
sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di
acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!» (n. 86)
È possibile, tutto questo,
per il dono che Dio ci fa di Se stesso, della sua vita che è amore, che è
comunione. Le parole di san Paolo nella lettera ai romani possono farci da
guida, da lampada ai nostri passi: «Per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo
abbiamo, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e
ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci
vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza
poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,2-5).
2° MEDITAZIONE
I segni
dei tempi Le sfide del mondo contemporaneo
“I
farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che
mostrasse loro un segno dal cielo”.
“Un segno dal cielo”, un segno che scenda sulla terra dal cielo, un
segno speciale, eccezionale: i sadducei ed i farisei non hanno colto l’essenza
di Gesù, la Verità; hanno dinanzi a loro il Figlio di Dio, il Verbo fatto
carne, ma si sono avvicinati a Lui unicamente per metterlo alla prova, non
hanno saputo vedere ed accogliere il Segno donato loro dal Cielo.
Sono così immersi nel loro mondo, nelle loro sicurezze
materiali, intrisi della loro cultura, dei loro ragionamenti, che non hanno
occhi per vedere, menti per capire, cuori per amare.
E’ stato loro donato un segno grande dal Cielo, il Segno dei
segni, hanno il Cielo innanzi e lo avvicinano unicamente per metterlo alla prova e chiedere che mostrasse
loro un segno dal cielo, quando il Segno era proprio lì, davanti ai loro occhi.
I farisei ed i sadducei, uno spaccato di storia lontana nel
tempo, ma pur sempre uno spaccato della nostra
umanità della nostra presunzione di onnipotenza che acceca ed impedisce
di cogliere l’essenziale.
“Sapete dunque
interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”:
Gesù risponde con una domanda, non risponde con una affermazione, risponde alla
provocazione con una provocazione.
Alla provocazione rivoltagli per metterlo alla prova Gesù
contrappone la provocazione per salvare.
Gesù non rivolge ai farisei ed ai sadducei alcuna condanna,
alcun giudizio, ma vuole interpellare, aprire un varco per tentare di
raggiungere le loro menti e quindi i loro cuori e quindi aprire i loro occhi al
Segno disceso dal Cielo.
“Una generazione
perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il
segno di Giona”: Gesù trascende il contesto dell’incontro con i farisei ed
i sadducei, va oltre l’accadimento storico e si rivolge alla generazione
perversa ed adultera del suo tempo e di ogni tempo, si rivolge a tutta
l’umanità ed afferma chiaramente che nessun segno sarà dato se non il segno di
Giona, il segno vetero testamentario che prefigura la Sua morte e la Sua
resurrezione.
I fariesi ed i sadducei hanno vissuto il tempo
dell’Incarnazione, sono stati contemporanei della vicenda terrena di Gesù, lo
hanno incrociato per strada, gli hanno parlato ma erano troppo immersi nel loro
mondo che non hanno saputo distinguere il Segno dal Cielo, così come noi oggi immersi
nel del terzo millennio, immersi nel nostro mondo contemporaneo, rischiamo di non
distinguere i segni dei tempi e di non incontrare l’Unico Segno che dobbiamo
cercare e che dobbiamo vivere.
Nell’oggi che ci è stato dato di vivere, segnato dalle
profonde ferite del nostro mondo contemporaneo, è presente il Segno del Cielo,
oggi come allora e come sempre.
Non siamo nati per essere lasciati naufragare negli abissi di
un oceano senza luce e senza pace, ma siamo figli di un Padre.
L’oggi ci colloca in uno spazio determinato ed in un preciso
contesto temporale: ogni sfida è racchiusa nell’oggi, così come ogni occasione
di Salvezza ci viene offerta nell’oggi.
L’oggi, il qui adesso, la quotidianità è la dimensione del
nostro vivere.
La storia è un susseguirsi smisurato di oggi, di quotidianità.
E noi, proprio noi, nella nostra infinita piccolezza, tutti
noi e ciascuno di noi, siamo autori della nostra storia, siamo tutti
corresponsabili, nel bene e nel male, della nostra storia.
Ci è stato dato di vivere quest’oggi per portare un piccolo
frammento di storia al Padre, per contribuire a ricondurre la storia al Padre
che ne è il Vero Autore.
San Francesco d’Assisi non è santo perché ha vissuto nel
Medioevo, ma semplicemente perché ha vissuto il Medioevo con tutte le sfide e
le croci di quel suo tempo riuscendo a cogliere il segno di Giona: è scivolato
e naufragato nelle sfide della sua contemporaneità ma ha riconosciuto in Gesù
il figlio del Padre ed ha abbracciato la Croce ed ha disteso le sue braccia sul
legno della Croce e si è fatto uno con Gesù.
Ha abbracciato la Croce ha conosciuto l’Amore, l’Amore
Infinito, l’autore della storia ed ha amato il povero, il lebbroso, la fame, il
freddo, la dura roccia e la sofferenza tutta nel corpo e nello spirito fin
tanto da incarnare la sofferenza sublime del Figlio di Dio.
I farisei ed i sadducei si sono mantenuti distanti da Gesù, non hanno saputo fare
spazio a Gesù nella loro vita: il Segno dal Cielo era in mezzo a loro ma essi
non l’hanno riconosciuto.
Ogni tempo della storia è tempo di grazia per distinguere i
segni dei tempi, così anche nel nostro mondo contemporaneo, pur con tutte le
sue pericolose insidie e piaghe profonde, Gesù è pronto ad accoglierci.
RIFLESSIONE
Non importa quanto siamo piccoli, limitati, spaventati ciò che
conta è lasciarci coinvolgere dall’Amore.
Il mondo contemporaneo è intriso di veleni, soffocato da una
cultura relativista e dal dilagare di diritti e pretese che stanno distruggendo
la famiglia, cellula primaria sulla quale poggia tutta la società ma ancora
oggi Gesù ci interpella, come fece al tempo dei farisei e dei sadducei,
rispondendo alle nostre provocazioni con la stessa risposta di allora: “Quando
si fa sera, voi dite: bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi
burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto
del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”.
-I fatti di cronaca ci turbano e talvolta accadono proprio nel
nostro contesto abitativo, lavorativo, familiare.
-Sembra che tutto sfugga ad ogni possibilità di controllo.
-Ci sentiamo impotenti, disorientati, piccoli.
-Talvolta arrabbiati, desiderosi di fare qualcosa senza sapere
da dove iniziare.
Un segno ci è stato dato: il segno di Giona, Gesù morto e
risorto, Gesù presente nella Messa, nel fratello, nella sofferenza, nella
natura.
Gesù ci interpella e ci chiama a farci uno con Lui e sarà Lui
a guidare i nostri passi, a santificare il nostro quotidiano ed a sanare le
nostre ferite, le ferite della nostra famiglia, del nostro ambiente di lavoro,
del nostro paese, e così all’infinito.
Daniele e Maria-Giovanna
1° MEDITAZIONE
acrilico su tavola, sala del Servizio Diocesano di ascolto familiare Il Pozzo,
presso la diocesi di Latina
Giorgia-Eloisa Andreatta
“ SE TU CONOSCESSCI
IL DONO DI DIO”
(Gv. 4, 5-42)
A cura di Sr. Maria Stella
In quel tempo. Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: “Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura”? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Spunti per la meditazione
La Palestina ai tempi di Gesù si suddivideva in tre regioni principali: la Galilea a Nord, la Samaria, zona intermedia, e la Giudea a Sud. Samaria è il nome di una regione geografica, storica e politica ed è la regione centrale della biblica Terra d'Israele. Il termine Samaria deriva forse da shâmar, 'guardare', quindi significa qualcosa di simile a 'prospettiva', 'osservatorio'. È il nome dell'antica città, situata quasi nel mezzo della Palestina, che fu la capitale del regno settentrionale ebraico detto anche d'Israele o di Samaria: oggi il piccolo villaggio che ne occupa il posto si chiama Sebasṭiyyeh.
La Samaria è una regione montuosa, mille evocazioni di personaggi e di eventi costellano la cronologia antica e sono ricordati sulle colline arrotondate o sulle dolci pianure di questa regione. I vestiti blu e bianco delle sue donne danno ancor oggi una nota di gioia al paesaggio. Vista in primavera, acquista una bellezza fresca e giovanile. I suoi innumerevoli oliveti, con il loro grigio verde, coprono il territorio come un manto reale. I monti Ebal e Garizim sono i monti delle maledizioni e delle benedizioni, male e bene mescolati indissolubilmente nel cuore di questa terra che sa di sofferenze e di gioie, dì sconfitte e di umiliazioni, ma sa anche che di trionfo, come quello di Armaghedon, sulla sua frontiera nord, sarà del bene e la vittoria apparterrà a Dio e al suo Cristo. Le colline della regione, molto abbondanti, sono chiamale nella Bibbia" montagne di Efraim" perché questa tribù del regno del nord occupava gran parte del territorio montuoso di Samaria. Tra queste montagne si estendono fertili vallate come quelle di Dotan, di Sicar e di Silo, che producono ricchi raccolti di cercali, ortaggi e frutta, mentre le colline sono coperte di ulivi, di mandorli e di estesi boschi di pini, querce e terebinti.
L'ostilità tra Giudei e Samaritani durava da tanto tempo: risaliva addirittura al 700 a.C. I Samaritani erano considerati dai Giudei nientemeno che scismatici, eretici e pagani. Avevano usanze religiose e liturgiche diverse da quelle della capitale. Avevano costruito un tempio proprio, diverso da quello di Gerusalemme, dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia, sul monte Garizim. A causa di questa ostilità, il viandante che doveva recarsi in Galilea, preferiva aggirare la Samaria e passare per la Transgiordania; la strada era più lunga, ma molto più sicura. Anche Gesù, nella maggior parte dei casi, faceva così, ma questa volta decide di attraversare la Samaria e giunge alla città di Sicar dove c'era il famoso pozzo di Giacobbe. Vi arriva verso mezzogiorno e, stanco del viaggio, si siede presso il pozzo.
Samaritana, è anche la donna protagonista di questo episodio e alla quale Gesù rivela la propria identità di Messia. Una persona identificata subito da un codice biologico (è donna) e da uno culturale (figlia di Samaria con i suoi riti, i suoi simboli, la sua cultura). È una donna senza nome, che ci rappresenta, che assomiglia a tutti noi. Gesù per la prima volta porta la sua parola oltre i confini di Israele (l’evangelista dice che Gesù “doveva” passare per la Samaria verbo greco che tradotto sta ad indicare “bisognava, era necessario, doveva”) dilata gli orizzonti della sua missione con un progetto più ampio: al di sopra di tutti i codici, nel cuore di ogni uomo porta la sua presenza e significato.
La prima cosa che fa Gesù: supera la barriera e si mette a dialogare con la donna. Si presenta come uno che chiede, che ha bisogno … è stanco per il viaggio e la sua stanchezza è segno evidente di come egli abbia voluto condividere la nostra umanità, sperimenta la stanchezza fisica, la fatica di capirsi, il peso di ogni giorno, il dare senso alle occupazioni quotidiane … Si fa vicino ed è lui che chiede. In questo suo andare, libero e fecondo, fra gli stranieri, Gesù è maestro di umanità. Lo è con il suo abbattere barriere: la barriera tra uomo e donna, tra la gente del luogo e i forestieri, tra religione e religione. È maestro perché fonte di nascite: - fa nascere un incontro e un dialogo là dove sembrava impossibile, e questo a partire dalla sua povertà: «Ho sete!»
I temi che Gesù tocca sono due: l’acqua viva e il culto autentico.
Nel procedere della conversazione, si ha un andirivieni di domande e risposte, come se la Samarita e Gesù si muovessero a passi di danza in una sorta di rituale del cuore. Danza che dopo i primi passi diventa un procedere sempre più in profondità là dove l’acqua è “viva”. Gesù porta l’attenzione della donna al centro della conversazione: “Se conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice "dammi da bere". Chiede da bere, e promette da bere. E' bisognoso come uno che aspetta di ricevere, ed è nell'abbondanza come uno che è in grado di saziare. Se conoscessi - dice - il dono di Dio. Il dono di Dio è lo Spirito Santo. Ma il Signore parla alla donna in maniera ancora velata, solo a poco a poco penetra nel cuore di lei. Intanto la istruisce.
Gesù rivolge alla donna l’amabile esortazione: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice "dammi da bere", l'avresti pregato tu, ed egli ti avrebbe dato un'acqua viva.
Finora la tiene sulla corda. Infatti, comunemente si chiama acqua viva quella che zampilla dalla sorgente. L'acqua piovana, che si raccoglie nei fossi o nelle cisterne, non vien chiamata acqua viva. Potrebbe anche essere acqua di sorgente, ma se è stata raccolta in qualche luogo e non è più in comunicazione con la sorgente, essendone tagliata fuori, non si può più chiamare acqua viva. Acqua viva si chiama solo quella che si attinge alla sorgente.
Gesù le lancia una proposta: donarle per sempre dell'acqua viva.
La donna rimane ancorata al suo mondo, fatto di cose quotidiane, il pozzo, l’ acqua, la corda, la brocca. Gesù, invece, punta più in profondità. Ma non sempre le cose profonde sono quelle più comprensibili. Gesù accetta la donna così com'è e la donna si accorge degli indubbi vantaggi di tale proposta. Finalmente può recuperare del tempo, senza venire ogni volta ad attingere acqua.
Poi Gesù tenta un nuovo dialogo non partendo ancora dalla religione, ma dalla vita familiare.
Quella donna aveva avuto cinque mariti ed ora, chi aveva accanto, non era suo marito.
Il suo problema era l'incapacità di relazionarsi con un uomo con cui condividere la propria vita. La donna, però, si accorge che Gesù è un profeta. E appena si accorge di questo, è lei a iniziare il discorso, partendo dalla religione per arrivare al culto.
Dal pozzo di Sicar si vede il monte Garizim, con il tempio dei samaritani; e attorno cinque alture su cui i coloni stranieri, che hanno ripopolato Samaria, hanno eretto cinque templi ai loro dei. Si può leggere in parallelo un messaggio metaforico: il popolo è andato dietro a cinque idoli, come la donna a cinque uomini.
Il problema della donna era il luogo dove adorare Dio. Per i giudei era Gerusalemme, per i samaritani il monte Garizim. Gesù sposta il problema e arriva alla sua radice. Dio si può lodare ovunque, poiché il culto è fatto in spirito e verità. Il culto si lega alla persona di Gesù che è la verità ed è un culto che aiuta a maturare tutto l'uomo. Davanti all'idea di Messia che intuisce la donna, finalmente Gesù si svela. "Sono io che ti parlo".
In quello stesso istante arrivano i discepoli e il discorso termina in modo improvviso.
Gesù non ha dato risposte precise, ma ha suscitato nella donna una domanda: " Che sia veramente Lui il Messia?" La donna ne parla ai Samaritani e questi sono contagiati dalle sue parole. Gesù si ferma alcuni giorni con loro. Alla fine i Samaritani riconoscono in Gesù il Salvatore del mondo.
Gesù ha fatto vivere alla donna un autentico percorso di fede. La accetta come donna, crede in lei, non si impone, parte dal suo lavoro e dalla sua vita familiare. Comprende che è importante suscitare la domanda e non solo dare risposte preconfezionate. Accetta il dialogo con tutte le sue sfide. La samaritana riconosce Gesù dapprima come un giudeo sconosciuto, poi come il profeta, poi il Messia e infine come il Salvatore. La Samaritana ha vissuto un autentico percorso di fede e Gesù è stato il suo compagno di viaggio.
A noi tutto questo cosa dice? Scoprire il dono di Dio nella nostra realtà di vita.
E’ l’amorevole invito che Gesù fa anche a noi oggi: “Se tu conoscessi il dono di Dio…”
Chiediamoci: riconosco questo dono?
Mi lascio interpellare da questa esortazione per fare il mio cammino di fede?
Voglio trovare quest’”acqua viva” che zampilla per l'eternità, che diventa acqua che disseta tutti quelli che incontro?
Rivedere la propria vita con questa chiave di lettura dovrebbe portarci ad essere più consapevoli, più attenti al nostro presente, più protesi verso gli altri e verso il futuro.
XV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
VEGLIA DI PREGHIERA
PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
GIOVANNI PAOLO II
Tor Vergata, sabato 19 agosto 2000
1. "Voi chi dite che io sia?" (Mt 16, 15).
Carissimi giovani e ragazze, con grande gioia mi incontro
nuovamente con voi in occasione di questa Veglia di preghiera, durante la quale
vogliamo metterci insieme in ascolto di Cristo, che sentiamo presente tra noi.
E' Lui che ci parla.
"Voi chi dite che io sia?". Gesù pone questa domanda ai
suoi discepoli, nei pressi di Cesarea di Filippo. Risponde Simon Pietro:
"Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,
16). A sua volta il Maestro gli rivolge le sorprendenti parole: "Beato te,
Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma
il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16, 17).
Qual è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sentire
ciò che gli uomini pensano di Lui? Perché vuol sapere che cosa pensano di Lui i
suoi discepoli?
Gesù vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto
nelle loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo
stesso tempo, tuttavia, egli sa che il giudizio che manifesteranno non sarà
soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori con
la grazia della fede.
Questo evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un
certo senso nel "laboratorio della fede". Vi si svela il mistero
dell'inizio e della maturazione della fede. Prima c'è la grazia della
rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio all'uomo. Segue poi
la chiamata a dare una risposta. Infine, c'è la risposta dell'uomo, una
risposta che d'ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita.
Ecco che cosa è la fede! E' la risposta dell'uomo ragionevole e
libero alla parola del Dio vivente. Le domande che Cristo pone, le risposte che
vengono date dagli Apostoli, e infine da Simon Pietro, costituiscono quasi una
verifica della maturità della fede di coloro che sono più vicini a Cristo.
2. Il colloquio presso Cesarea di Filippo ebbe luogo nel periodo
prepasquale, cioè prima della passione e della resurrezione di Cristo.
Bisognerebbe richiamare ancora un altro evento, durante il quale Cristo, ormai
risorto, verificò la maturità della fede dei suoi Apostoli. Si tratta dell'incontro
con Tommaso apostolo. Era l'unico assente quando, dopo la resurrezione, Cristo
venne per la prima volta nel Cenacolo. Quando gli altri discepoli gli dissero
di aver visto il Signore, egli non volle credere. Diceva: "Se non vedo
nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e
non metto la mia mano nel suo costato, non crederò" (Gv 20,
25). Dopo otto giorni i discepoli si trovarono nuovamente radunati e Tommaso
era con loro. Venne Gesù attraverso la porta chiusa, salutò gli Apostoli con le
parole: "Pace a voi!" (Gv 20, 26) e subito dopo si
rivolse a Tommaso: "Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la
tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma
credente!" (Gv 20, 27). E allora Tommaso rispose: "Mio
Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28).
Anche il Cenacolo di Gerusalemme fu per gli Apostoli una sorta di
"laboratorio della fede". Tuttavia quanto lì avvenne con Tommaso va,
in un certo senso, oltre quello che successe nei pressi di Cesarea di Filippo.
Nel Cenacolo ci troviamo di fronte ad una dialettica della fede e
dell'incredulità più radicale e, allo stesso tempo, di fronte ad una ancor più
profonda confessione della verità su Cristo. Non era davvero facile credere che
fosse nuovamente vivo Colui che avevano deposto nel sepolcro tre giorni prima.
Il Maestro divino aveva più volte preannunciato che sarebbe
risuscitato dai morti e più volte aveva dato le prove di essere il Signore
della vita. E tuttavia l'esperienza della sua morte era stata così forte, che
tutti avevano bisogno di un incontro diretto con Lui, per credere nella sua
resurrezione: gli Apostoli nel Cenacolo, i discepoli sulla via per Emmaus, le
pie donne accanto al sepolcro... Ne aveva bisogno anche Tommaso. Ma quando la
sua incredulità si incontrò con l'esperienza diretta della presenza di Cristo,
l'Apostolo dubbioso pronunciò quelle parole in cui si esprime il nucleo più
intimo della fede: Se è così, se Tu davvero sei vivo pur essendo stato ucciso,
vuol dire che sei "il mio Signore e il mio Dio".
Con la vicenda di Tommaso, il "laboratorio della fede"
si è arricchito di un nuovo elemento. La Rivelazione divina, la domanda di
Cristo e la risposta dell'uomo si sono completate nell'incontro personale del
discepolo col Cristo vivente, con il Risorto. Quell'incontro divenne l'inizio
di una nuova relazione tra l'uomo e Cristo, una relazione in cui l'uomo
riconosce esistenzialmente che Cristo è Signore e Dio; non soltanto Signore e
Dio del mondo e dell'umanità, ma Signore e Dio di questa mia concreta esistenza
umana. Un giorno san Paolo scriverà: "Vicino a te è la parola, sulla tua
bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se
confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore
che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,
8-9).
3. Nelle Letture dell'odierna Liturgia troviamo descritti gli
elementi di cui si compone quel "laboratorio della fede", dal quale
gli Apostoli uscirono come uomini pienamente consapevoli della verità che Dio
aveva rivelato in Gesù Cristo, verità che avrebbe modellato la loro vita
personale e quella della Chiesa nel corso della storia. L'odierno incontro
romano, carissimi giovani, è anch'esso una sorta di "laboratorio della
fede" per voi, discepoli di oggi, per i confessori di Cristo alla soglia
del terzo millennio.
Ognuno di voi può ritrovare in se stesso la dialettica di domande
e risposte che abbiamo sopra rilevato. Ognuno può vagliare le proprie
difficoltà a credere e sperimentare anche la tentazione dell'incredulità. Al
tempo stesso, però, può anche sperimentare una graduale maturazione nella
consapevolezza e nella convinzione della propria adesione di fede. Sempre,
infatti, in questo mirabile laboratorio dello spirito umano, il laboratorio
appunto della fede, s'incontrano tra loro Dio e l'uomo. Sempre il Cristo
risorto entra nel cenacolo della nostra vita e permette a ciascuno di
sperimentare la sua presenza e di confessare: Tu, o Cristo, sei "il mio
Signore e il mio Dio".
Cristo disse a Tommaso: "Perché mi hai veduto, hai creduto:
beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20, 29).
Ogni essere umano ha dentro di sé qualcosa dell'apostolo Tommaso. E' tentato
dall'incredulità e pone le domande di fondo: E' vero che c'è Dio? E' vero che
il mondo è stato creato da Lui? E' vero che il Figlio di Dio si è fatto uomo, è
morto ed è risorto? La risposta si impone insieme con l'esperienza che la
persona fa della Sua presenza. Occorre aprire gli occhi e il cuore alla luce
dello Spirito Santo. Allora parleranno a ciascuno le ferite aperte di Cristo
risorto: "Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non
avendo visto crederanno".
4. Carissimi amici, anche oggi credere in Gesù, seguire Gesù sulle
orme di Pietro, di Tommaso, dei primi apostoli e testimoni, comporta una presa
di posizione per Lui e non di rado quasi un nuovo martirio: il martirio di chi,
oggi come ieri, è chiamato ad andare contro corrente per seguire il Maestro
divino, per seguire "l'Agnello dovunque va" (Ap 14,4).
Non per caso, carissimi giovani, ho voluto che durante l'Anno Santo fossero
ricordati presso il Colosseo i testimoni della fede del ventesimo secolo.
Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo
certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai
fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza
nell'attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è
esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e
alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro.
Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale
consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella
dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà
e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e
dell'interesse personale o di gruppo.
Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi
in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la
libertà dell'uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a
chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti
attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.
5. Cari giovani, è difficile credere in un mondo così? Nel Duemila
è difficile credere? Sì! E' difficile. Non è il caso di nasconderlo. E'
difficile, ma con l'aiuto della grazia è possibile, come Gesù spiegò a Pietro:
"Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei
cieli" (Mt 16,17).
Questa sera vi consegnerò il Vangelo. E' il dono che il Papa vi
lascia in questa veglia indimenticabile. La parola contenuta in esso è la
parola di Gesù. Se l'ascolterete nel silenzio, nella preghiera, facendovi
aiutare a comprenderla per la vostra vita dal consiglio saggio dei vostri
sacerdoti ed educatori, allora incontrerete Cristo e lo seguirete, impegnando
giorno dopo giorno la vita per Lui!
In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui
che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la
bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di
radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge
a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore
le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in
voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di
seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il
coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la
società, rendendola più umana e fraterna.
Carissimi giovani, in questi nobili compiti non siete soli. Con
voi ci sono le vostre famiglie, ci sono le vostre comunità, ci sono i vostri
sacerdoti ed educatori, ci sono tanti di voi che nel nascondimento non si
stancano di amare Cristo e di credere in Lui. Nella lotta contro il peccato non
siete soli: tanti come voi lottano e con la grazia del Signore vincono!
6. Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino"
(cfr Is 21,11-12) in quest'alba del terzo millennio. Nel corso
del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche
per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri.
I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la
speranza cristiana, si sono poi rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui
convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere
strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di
persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri
umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete
la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra
energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.
Cari giovani del secolo che inizia, dicendo «sì» a Cristo, voi
dite «sì» ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché Egli regni nei
vostri cuori e nell'umanità del nuovo secolo e millennio. Non abbiate paura di
affidarvi a Lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in
ogni situazione.
Maria Santissima, la Vergine che ha detto «sì» a Dio durante tutta
la sua vita, i Santi Apostoli Pietro e Paolo e tutti i Santi e le Sante che
hanno segnato attraverso i secoli il cammino della Chiesa, vi conservino sempre
in questo santo proposito!
A tutti ed a ciascuno offro con affetto la mia Benedizione.
Alla fine del suo discorso ai giovani, Giovanni
Paolo II ha così proseguito:Voglio concludere questo mio discorso, questo mio messaggio, dicendovi che ho aspettato tanto di potervi incontrare, vedere, prima nella notte e poi nel giorno. Vi ringrazio per questo dialogo, scandito con grida ed applausi. Grazie per questo dialogo. In virtù della vostra iniziativa, della vostra intelligenza, non è stato un monologo, è stato un vero dialogo.
Al termine della celebrazione il Papa ha salutato i giovani con queste parole:
C’è un proverbio polacco che dice: "Kto z kim przestaje, takim si? staje". Vuol dire: se vivi con i giovani, dovrai diventare anche tu giovane. Così ritorno ringiovanito. E saluto ancora una volta tutti voi, specialmente quelli che sono più indietro, in ombra, e non vedono niente. Ma se non hanno potuto vedere, certamente hanno potuto sentire questo "chiasso". Questo "chiasso" ha colpito Roma e Roma non lo dimenticherà mai!
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