lunedì 6 maggio 2019

3° MEDITAZIONE SR. CRISTINA: DAR CREDITO ALLA SPERANZA



«Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo
- oracolo del Signore -,
progetti di pace e non di sventura,
per concedervi un futuro pieno di speranza» Ger 29,11

«52Giuseppe di Arimatea si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. 54Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. 55Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto» (Lc 23,52-56).

L’evangelista Luca sta presentando l’atto finale del dramma che si è consumato sul Calvario, in quel giorno vigilia di festa. Il Crocifisso è morto e il suo corpo, ottenuto da amici influenti e coraggiosi, è posto in una tomba, una tomba che è nuova, sola novità nel copione tante volte ripetuto delle esecuzioni capitali.
Giuseppe di Arimatea, con la sua audacia e la sua generosità, compie il gesto della sepoltura, poi lascia la scena alle donne che lo hanno seguito e che osservano ogni particolare di quanto avviene.
Tra le due scene, l’evangelista annota: «Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato» (v. 54).
Nella tomba, insieme al corpo di Gesù vengono sepolte le attese di salvezza e di riscatto che tanti avevano riposto in lui, ascoltandolo e vedendolo operare; sono sepolte le visioni del Messia che ognuno dei suoi aveva e desiderava riconoscere nel Maestro. Nella tomba viene pure chiusa la vita condivisa con Gesù, ormai consegnata ad un passato che si può soltanto ricordare.

Nel presente, però, ci sono dei segni che invitano ad aprire brecce nel muro spesso di ciò che appare senza futuro. È il giorno parasceve, della preparazione: ci si prepara a celebrare il sabato, giorno in cui, settimana dopo settimana, si rinnova la consapevolezza di essere coinvolti da Dio nell’alleanza da Lui stipulata con il suo popolo. Il riposo rituale del sabato tiene viva la certezza: Dio, che ha fatto tutto per l’uomo (Es 20,8-11) e ha liberato Israele dalla schiavitù (Dt 5,12-15), non mancherà oggi di benedirlo. Su di Lui può contare. Ci si astiene da ogni attività, dunque, per dedicarsi a lodarlo, con gioia e con gratitudine, dichiarandolo così Signore del tempo e della vita, del mio tempo e della mia vita.
Le luci del sabato, quei lumi accesi nelle case a segnalare l’inizio del giorno festivo, già splendevano quando Gesù viene sepolto. Qualcosa finisce, sì, ma qualcos’altro sta iniziando a sbocciare. La luce del giorno che al crepuscolo si affievolisce è rischiarata dai lumi risplendenti. L’oggi dei discepoli di Gesù, addolorati e senz’altro smarriti, chiama ciascuno di loro a tenere in tensione queste due realtà; una tensione ardua da sostenere, eppure gravida di vita. Di questa vita ancora sconosciuta e, anche, inimmaginata, sono una discreta allusione quegli olii profumati che le donne preparano e poi conservano durante il giorno di festa, in attesa di ungere il corpo di Gesù. La sospensione a motivo del riposo sabbatico, osservando il quale ogni fedele israelita rimane nell’alleanza, dichiara la volontà di lasciare a Dio il primato dell’azione, aperti e disponibili a fare la propria parte.
Profumi preparati, riposo sabbatico in obbedienza alla Legge: le donne compiono gesti di speranza, dischiudendo in se stesse lo spazio per accogliere la sorpresa della Vita, non quella ‘ritornata’ dalla morte, ma quella ‘oltre’ la morte.
«La liberazione dalla morte è ciò che l'uomo spera intensamente. Diciamolo, è l'unico oggetto della sua speranza. Perché se questa attesa non approda a nulla, tutte le altre sono senza significato» (card. Godfried Danneels). Ognuno di noi si dà da fare per realizzare una tale speranza.
La differenza tra i contenuti che ciascuno mette nella parola ‘speranza’ e le strade che intraprende per conseguirli è determinata da chi sta al centro del mio cuore, e dunque a chi mi rivolgo per dare orientamento all’esistenza. L’alternativa è radicale, senza sfumature: o io o Dio.
In chi ripongo la mia speranza di vita? In me stesso, nelle mie risorse, per tutelare le quali cerco di acquisire potere e rendere inoffensivo chi le può minacciare… oppure in Dio, che si è manifestato in Gesù Signore come amore che dona la vita?
L’antica sequenza pasquale, che la liturgia della Chiesa canta a Pasqua e poi per gli otto giorno seguenti, fa dire a Maria di Magdala: «E’ risorto Cristo, mia speranza!». Se, in sintonia con questa donna, vogliamo anche noi affermare che la nostra speranza è Cristo risorto, allora niente è più come prima. Cominciamo a vedere l’esistenza nostra e di tutto il mondo, a partire da quella di chi ci è vicino, dal suo compimento: Gesù Cristo glorificato, appunto, di cui noi formiamo il corpo vivente nel tempo, nella storia: la Chiesa. Con il salmista allora possiamo dire: «Solo in Dio riposa l'anima mia: / da lui la mia speranza» (Sal 62,6).
Giorgio La Pira, che fondava la sua visione sociale e politica e l’azione conseguente sull’immagine della Gerusalemme celeste (Ap 21 e 22), non era perciò un ‘visionario’ perduto in un empireo lontano dalla realtà, ma era un concreto uomo di fede che, alle ‘speranze’ soltanto umane, immanenti, anteponeva la speranza certa che è una Persona, quella del Figlio di Dio, nel quale noi pure siamo figli di Dio per il dono del Battesimo.
«Colui che alza gli occhi verso il Signore risorto trabocca di fiducia, ma non smette tuttavia di darsi da fare. Bisogna pensare agli angeli di Pasqua e dell'Ascensione. A Pasqua dicono ai discepoli: «Rivolgete i vostri sguardi verso il cielo, non verso la terra: Lui non è qui». All'Ascensione affermeranno esattamente il contrario: «Non restate là a guardare il cielo... Alzatevi, c'è ancora molto lavoro da fare» (card. Godfried Danneels).
Nel nostro Paese i venti dello scoraggiamento e dell’apatia soffiano con potenza. La disillusione ammorba chi ancora non ha neppure avuto il tempo per ‘sognare in grande’. Qualche considerazione di papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium ci può sostenere e ispirare: «”Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza” (Benedetto XVI). In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!» (n. 86)
È possibile, tutto questo, per il dono che Dio ci fa di Se stesso, della sua vita che è amore, che è comunione. Le parole di san Paolo nella lettera ai romani possono farci da guida, da lampada ai nostri passi: «Per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo abbiamo, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,2-5).




                                        

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