«Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo
- oracolo del Signore -,
progetti di pace e non di sventura,
per concedervi un futuro
pieno di speranza» Ger
29,11
«52Giuseppe
di Arimatea si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo
depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato
nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. 54Era il
giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. 55Le
donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse
osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli
profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto» (Lc
23,52-56).
L’evangelista Luca sta
presentando l’atto finale del dramma che si è consumato sul Calvario, in quel
giorno vigilia di festa. Il Crocifisso è morto e il suo corpo, ottenuto da
amici influenti e coraggiosi, è posto in una tomba, una tomba che è nuova, sola
novità nel copione tante volte ripetuto delle esecuzioni capitali.
Giuseppe di Arimatea, con la
sua audacia e la sua generosità, compie il gesto della sepoltura, poi lascia la
scena alle donne che lo hanno seguito e che osservano ogni particolare di quanto
avviene.
Tra le due scene,
l’evangelista annota: «Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci
del sabato» (v. 54).
Nella tomba, insieme al corpo
di Gesù vengono sepolte le attese di salvezza e di riscatto che tanti avevano
riposto in lui, ascoltandolo e vedendolo operare; sono sepolte le visioni del
Messia che ognuno dei suoi aveva e desiderava riconoscere nel Maestro. Nella
tomba viene pure chiusa la vita condivisa con Gesù, ormai consegnata ad un
passato che si può soltanto ricordare.
Nel presente, però, ci sono
dei segni che invitano ad aprire brecce nel muro spesso di ciò che appare senza
futuro. È il giorno parasceve, della
preparazione: ci si prepara a celebrare il sabato, giorno in cui, settimana
dopo settimana, si rinnova la consapevolezza di essere coinvolti da Dio nell’alleanza
da Lui stipulata con il suo popolo. Il riposo rituale del sabato tiene viva la
certezza: Dio, che ha fatto tutto per l’uomo (Es 20,8-11) e ha liberato Israele dalla schiavitù (Dt 5,12-15), non mancherà oggi di
benedirlo. Su di Lui può contare. Ci si astiene da ogni attività, dunque, per
dedicarsi a lodarlo, con gioia e con gratitudine, dichiarandolo così Signore
del tempo e della vita, del mio tempo e della mia vita.
Le luci del sabato, quei lumi accesi nelle case a segnalare l’inizio
del giorno festivo, già splendevano
quando Gesù viene sepolto. Qualcosa finisce, sì, ma qualcos’altro sta iniziando
a sbocciare. La luce del giorno che al crepuscolo si affievolisce è rischiarata
dai lumi risplendenti. L’oggi dei
discepoli di Gesù, addolorati e senz’altro smarriti, chiama ciascuno di loro a
tenere in tensione queste due realtà; una tensione ardua da sostenere, eppure
gravida di vita. Di questa vita ancora sconosciuta e, anche, inimmaginata, sono
una discreta allusione quegli olii profumati che le donne preparano e poi
conservano durante il giorno di festa, in attesa di ungere il corpo di Gesù. La
sospensione a motivo del riposo sabbatico, osservando il quale ogni fedele
israelita rimane nell’alleanza, dichiara la volontà di lasciare a Dio il
primato dell’azione, aperti e disponibili a fare la propria parte.
Profumi preparati, riposo
sabbatico in obbedienza alla Legge: le donne compiono gesti di speranza,
dischiudendo in se stesse lo spazio per accogliere la sorpresa della Vita, non
quella ‘ritornata’ dalla morte, ma quella ‘oltre’ la morte.
«La liberazione dalla morte è ciò che l'uomo spera
intensamente. Diciamolo, è l'unico oggetto della sua speranza. Perché se questa
attesa non approda a nulla, tutte le altre sono senza significato» (card. Godfried Danneels). Ognuno di
noi si dà da fare per realizzare una tale speranza.
La differenza tra i contenuti che ciascuno mette nella
parola ‘speranza’ e le strade che intraprende per conseguirli è determinata da
chi sta al centro del mio cuore, e dunque a chi mi rivolgo per dare
orientamento all’esistenza. L’alternativa è radicale, senza sfumature: o io o Dio.
In chi ripongo la mia speranza di vita? In me stesso,
nelle mie risorse, per tutelare le quali cerco di acquisire potere e rendere
inoffensivo chi le può minacciare… oppure in Dio, che si è manifestato in Gesù
Signore come amore che dona la vita?
L’antica
sequenza pasquale, che la liturgia della Chiesa canta a Pasqua e poi per gli
otto giorno seguenti, fa dire a Maria di Magdala: «E’ risorto Cristo, mia
speranza!». Se, in sintonia con questa donna, vogliamo anche noi affermare che
la nostra speranza è Cristo risorto, allora niente è più come prima. Cominciamo
a vedere l’esistenza nostra e di tutto il mondo, a partire da quella di chi ci
è vicino, dal suo compimento: Gesù Cristo glorificato, appunto, di cui noi
formiamo il corpo vivente nel tempo, nella storia: la Chiesa. Con il salmista
allora possiamo dire: «Solo in Dio riposa l'anima mia: / da lui la mia
speranza» (Sal 62,6).
Giorgio La
Pira, che fondava la sua visione sociale e politica e l’azione conseguente
sull’immagine della Gerusalemme celeste (Ap 21 e 22), non era perciò un
‘visionario’ perduto in un empireo lontano dalla realtà, ma era un concreto
uomo di fede che, alle ‘speranze’ soltanto umane, immanenti, anteponeva la
speranza certa che è una Persona, quella del Figlio di Dio, nel quale noi pure
siamo figli di Dio per il dono del Battesimo.
«Colui che alza
gli occhi verso il Signore risorto trabocca di fiducia, ma non smette tuttavia
di darsi da fare. Bisogna pensare agli angeli di Pasqua e dell'Ascensione. A
Pasqua dicono ai discepoli: «Rivolgete i vostri sguardi verso il cielo, non
verso la terra: Lui non è qui». All'Ascensione affermeranno esattamente il
contrario: «Non restate là a guardare il cielo... Alzatevi, c'è ancora molto
lavoro da fare» (card. Godfried
Danneels).
Nel
nostro Paese i venti dello scoraggiamento e dell’apatia soffiano con potenza.
La disillusione ammorba chi ancora non ha neppure avuto il tempo per ‘sognare
in grande’. Qualche considerazione di papa Francesco
nell’Esortazione apostolica Evangelii
Gaudium ci può sostenere e ispirare: «”Nel deserto si torna a scoprire il
valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono
innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della
sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto
di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la
Terra promessa e così tengono viva la speranza” (Benedetto XVI). In ogni caso,
in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere
agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio
sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di
acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!» (n. 86)
È possibile, tutto questo,
per il dono che Dio ci fa di Se stesso, della sua vita che è amore, che è
comunione. Le parole di san Paolo nella lettera ai romani possono farci da
guida, da lampada ai nostri passi: «Per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo
abbiamo, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e
ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci
vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza
poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,2-5).
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